Scrivi... che ti passa

Scrivi... che ti passa

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Rivoluzionario1989
view post Posted on 7/11/2012, 22:14




Un interessante articolo che forse può aiutare la discussione iniziata ieri durante la catechesi.

Francesco: il più inascoltato dei santi italiani
di F. Cardini



Non so, e senza dubbio può essere una mia personale ignoranza, chi abbia mai pronunziato per primo la peraltro fortunata formula “Francesco, il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”. Si tratta senza dubbio di uno slogan efficace: molti lo attribuiscono a Benito Mussolini, il quale effettivamente lo fece proprio fin da quando nel 1926, in coincidenza con la celebrazione del settecentenario del Transito del Povero d’Assisi, volle conferire all’evento il carattere della celebrazione nazionale segnata da una solennità paragonabile a quanto si era fatto cinque anni prima, in coincidenza con il seicentenario della morte di Dante. Il nesso tra Dante e Francesco, a parte il celebre canto XI del Paradiso, era evidente: si tratta dei due principali fondatori della lingua e della poesia italiane, e nel processo di costruzione dell’identità nazionale necessario al consolidamento dello stato nazionale l’idioma era valore fondamentale.
E’ tuttavia credo possibile (personalmente non ho fatto verifiche) che la celebre formula sia dovuta non già a Mussolini, bensì a Vincenzo Gioberti: nel qual caso è molto probabile che essa sia stata segnalata al Duce, che la fece propria, da Giovanni Gentile il quale del Gioberti appunto era attentissimo studioso. Essa è d’altronde azzeccata nella misura in cui ci si pone il problema di quando sia nata la nazione italiana, di quando si sia potuto cominciar a parlare di italiani (e non solo di “italici”, vale a dire di abitanti della penisola). Non c’è dubbio che una nazione si definisce primariamente attraverso l’idioma: in questo senso, il Cantico delle Creature – che è tra l’altro, con la sua lode altissima al Creatore e al Creato, un perfetto e inimitabile manifesto anticataro scritto proprio in un momento nel quale la Chiesa era impegnata nella lotta (anche armata) contro l’eresia che veniva ordinariamente chiamata “albigese” – ha il valore di un vero e proprio atto di fondazione dell’identità nazionale.
Se tutto ciò non serve a comprovare che Francesco sia davvero “il più santo degli italiani” (anche perché stabilire un Guinness dell’intensità santorale resta cosa ardua se non impossibile), vale quanto meno a verificare la validità della seconda parte di quella fortunata definizione: “il più italiano dei santi”, nel senso che nessuno tra i canonizzati dalla Chiesa ha mai fatto per la lingua e quindi per l’identità nazionale italiana quel che ha fatto Francesco in quanto scrittore e poeta.
Ma da qui a ritenere che sul serio se ne possa ricavare un modello di “santità italiana”, ce ne corre. Specie adesso, in tempi di Modernità sia pure in crisi e di consumismo sia pure in pericolo.
Basta riflettere: in che cosa consiste la Modernità, quanto meno quella che Zygmunt Baumann ha definito “Modernità solida”? Nata nel Quattro-Cinquecento, essa non è certo priva di radici e di una qualche continuità con la storia del mondo occidentale (ch’era a quel tempo l’Europa erede della pars Occidentis configurata dall’Editto di Teodosio e segnata dalla disciplina ecclesiale romana e dall’uso liturgico, giuridico e civile della lingua latina), ma rappresenta tuttavia una vera e propria rivoluzione che ha ridefinito l’Occidente stesso. Si può addirittura sostenere che Modernità ed Occidente moderno e contemporaneo coincidano: che, insieme, costituiscano una indissolubile endiadi e una realtà profondamente rivoluzionaria. Credo si possa addirittura parlare di una “rivoluzione occidentale” alla base del mondo moderno: essa è anzitutto originariamente basata su un geniale rovesciamento di rapporti tra produzione e consumo (tra XII e XV secolo si verificò un ribaltamento di piani nell’Europa occidentale, sulla base del quale non fu più il consumo a regolare i ritmi della produzione, come si era sempre verificato e avrebbe continuato a verificarsi in qualunque altra civiltà umana, bensì questa a dover seguire il trend indefinitivamente ascendente di quello in una travolgente corsa verso l’altrettanto indefinita crescita dei profitti). Quella “rivoluzione occidentale”, accompagnata con la decisa riscoperta dei valori filosofici antichi, consentì la nascita di un individualismo sempre più assoluto e del primato dell’economia e della dimensione del progresso (le scoperte e le invenzioni) che le tennero dietro. Le basi della “rivoluzione della Modernità” furono l’individualismo – dal quale nacquero stati assoluti prima, democrazie più tardi – e la Volontà di Potenza applicata in ogni campo, dall’economico al finanziario al politico al militare al tecnologico. Tali le forze che indussero, e che in un certo senso addirittura obbligarono, il mondo occidentale a farsi padrone della terra e dei popoli che la abitano, avviando “economia-mondo” e “scambio asimmetrico”. Tali le forze che adesso sono entrate in crisi in quella che il Baumann ha definito “Modernità liquida”, che le contesta, mostra di non confidare più in esse ma al tempo stesso ha difficoltà a sostituirle con altri valori, con altri obiettivi.
Ebbene: se è così, il Povero di Assisi fu un santo radicalmente antimoderno, sia pur ante litteram. Quando si parla della “povertà francescana”, si dimentica spesso quel che mi sembra fra tutti gli studiosi del nostro tempo sia stato sottolineato con energia, fermezza e lucidità speciali da Giovanni Miccoli: la paupertas francescana, esattamente in linea con il “Discorso delle Beatitudini” di Gesù, è non già semplicemente egestas, non già puro e limitato rifiuto della ricchezza materiale, bensì totale e radicale rinunzia a qualunque tipo di Volontà di Potenza individuale; a partire dalla sapienza e dalla cultura, a loro volta forme fondamentali di ricchezza e di potere.
Ma appunto in ciò il modello e l’esempio di Francesco colpiscono la radix omnium malorum della Modernità, ch’è in ultima analisi il culto sfrenato e unilaterale di qualunque forma di individualismo e di Volontà di Potenza. Il “farsi pusillo” di Francesco, il proclamarsi Ultimo, il mettersi al servizio degli Ultimi, configura non solo una teologia ma soprattutto un’antropologia in totale, assoluto e insanabile contrasto con quanto è prevalso in Occidente nell’ultimo mezzo secolo e con quanto il travolgente e prepotente revival liberal-liberistico postmoderno va proclamando da alcuni anni a questa parte.
Francesco va di moda: gli si dedicano romanzi, films, “originali” televisivi. Va di moda in una società che, di fatto, ne disattende, ne offende e ne calpesta di continuo il modello e l’esempio. La Modernità può essere anche “cristiana” e “postcristiana” nelle forme, nelle consuetudini e nell’esteriorità; può confondere la carità con l’umanitarismo e l’altruismo che ne sono patetica e superficiale caricatura; ma è radicalmente antifrancescana in quanto è radicalmente cristiana, e non ci sono “cristianisti”, non ci sono “atei devoti” che tengano. E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente e irremissibilmente l’Ego a Dio, in quanto predica libertà religiosa e tolleranza solo in quanto legittimazioni di un sistema civile, sociale, morale e intellettuale di vita da viversi etsi Deus non daretur. E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente il fiat voluntas Tua del Pater Noster con un blasfemo fiat voluntas mea.
In questo senso, Francesco d’Assisi può anche essere il più affascinante e il più amato dei santi: ma resta anche il più disatteso, il più tradito, il più inascoltato. Se non si capisce tutto questo, il solenne scenario di ogni 4 ottobre ad Assisi diventa un’oscena e blasfema parodia. Se lo si capisce, da qui deve cominciare la Rivoluzione.
 
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arcobaleno09
view post Posted on 20/11/2012, 09:35




Oltre questa stupida rabbia per niente
Oltre l’odio che sputa la gente
Sulla vita che è meno importante
Di tutto l’orgoglio che non serve a niente

Oltre i muri e i confini del mondo
Verso un cielo più alto e profondo
Delle cose che ognuno rincorre
E non se ne accorge che non sono niente
Che non sono niente


Video


per gli stolti che popolano il pianeta terra ....
 
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arcobaleno09
view post Posted on 29/11/2012, 09:24




Predicate il Vangelo, e se è proprio necessario usate anche le parole.


S.Francesco d'Assisi
 
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arcobaleno09
view post Posted on 5/12/2012, 09:16




http://www.striscialanotizia.mediaset.it/v...tra.shtml?16342

e siamo anche su striscia... che vergogna!!!!!
 
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arcobaleno09
view post Posted on 12/12/2012, 15:22




L'esordio del Papa su Twitter: «È con gioia che mi unisco a voi. Vi benedico tutti di cuore»
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/201...l?uuid=AbmTqJBH

la chiesa moderna? eccola qua! il nostro Papa è telepatico o ha ascoltato di nascosto la catechesi?

P.S. il nostro forum ha ancora l'ora legale.... 3d-santa
 
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arcobaleno09
view post Posted on 4/1/2013, 12:00




spesso pensiamo di sapere tutto della vita ma non è cosi.
Sapete cos'è la spicciolata?? un modo come un altro per i giovani di guadagnare qualche soldino...in questo modo però
http://bari.ilquotidianoitaliano.it/notizi...tri-18244.html/

tanti auguri passati al forum ....
 
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arcobaleno09
view post Posted on 8/1/2013, 09:54




iniziamo l'anno alla grande.


http://bari.ilquotidianoitaliano.it/notizi...ese-18424.html/

in sostanza chiamare il 118 non è più la prima cosa da fare in caso di soccorso ma l'ultima.
 
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arcobaleno09
view post Posted on 11/1/2013, 20:40




i campioni stanno solo da noi... ma perchè hanno chiuso i manicomi????

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parrocchiaimmacolata
view post Posted on 29/1/2013, 09:24




Conferenza Episcopale Italiana
CONSIGLIO PERMANENTE
Roma, 28 - 31 gennaio 2013


PROLUSIONE
DEL CARDINALE PRESIDENTE




1
Venerati e Cari Confratelli,
ci incontriamo all’inizio di un nuovo anno, che immaginiamo cruciale, riconoscendolo
fin d’ora quale tempo di Dio, tempo speciale in cui Egli ci parla e ci conferma la sua volontà
di salvezza verso tutti gli uomini. Il Vescovo, infatti, «dev’essere preso dall’inquietudine di
Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare e agire insieme con Dio. […] L’inquietudine
dell’uomo verso Dio e, a partire da essa, l’inquietudine di Dio verso l’uomo devono non dar
pace al Vescovo» (Benedetto XVI, Omelia per la Solennità dell’Epifania, 6 gennaio 2013).
«Presi dentro» da questa inquietudine, siamo già in speciale pellegrinaggio ad limina
apostolorum, toccando infatti all’episcopato italiano compiere il gesto canonicamente
prescritto, e compierlo – per un dono della Provvidenza di Dio – proprio nell’Anno della
Fede. Sappiamo che si tratta di un incontro di carattere unico, di un distinto evento di Chiesa,
che tocca in modo singolare ciascuno di noi, perché non abbiamo a trovarci a nostra volta nel
rischio di «correre o aver corso invano» (Gal 2,2). Fin d’ora, ringraziamo Benedetto XVI per
l’accoglienza che ci accorda, e lo ringraziamo in particolare – come Vescovi d’Italia – per
aver voluto di recente dichiarare venerabile il Papa Paolo VI: il riconoscimento delle sue virtù
eroiche esemplifica in modo eminente che l’autorità episcopale o si sostanzia della
testimonianza evangelica o difficilmente parla al mondo d’oggi.
1. Siamo ancora avvolti dall’ala del Natale, mistero di sconfinata delicatezza e insieme di
vigorosa scossa: «Abbiamo veramente posto per Dio, quando Egli cerca di entrare in noi?
Abbiamo tempo e spazio per Lui? […] La questione che riguarda Lui non sembra mai
urgente. Il nostro tempo è già completamente riempito. Ma le cose vanno ancora più in
profondità. Dio ha veramente un posto nel nostro pensiero?» (Benedetto VI, Omelia della
Messa di Mezzanotte, 24 dicembre 2012). Non è una domanda che ci poniamo di passaggio,
essa ha ruolo centrale e definitivo nella nostra esistenza: quanto il recente Natale ci ha spinto
a purificare il nostro sguardo, a riconsiderare le nostre priorità, a scuotere stanchezze, ad
affinare i nostri pensieri sulla verità di Cristo? Nell’aula del Sinodo – esperienza di Pentecoste
– è risuonata dall’intero Orbe che anche nell’irrinunciabile compito di annunciare il Vangelo,
prima di ogni altra considerazione, è Lui che dobbiamo guardare sempre di nuovo; Lui, la
lieta notizia e l’annunciatore primo, la verità e il maestro, il seme e il seminatore. Fa parte
«del diventare cristiani l’uscire dall’ambito di ciò che tutti pensano e vogliono, dai criteri
dominanti, per entrare nella luce della verità del nostro essere e, con questa luce, raggiungere
la vita giusta» (J. Ratzinger-Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli-Editrice Vaticana
2012, pag. 80). In Gesù vi è, infatti, il segreto di ogni metodo e di ogni vera efficacia: Lui,
Gesù, è la Luce vera che viene nel mondo, il Figlio del Dio vivente, il Rivelatore del Dio
invisibile, il Prototipo dell’umanità, il Centro della storia e del mondo, la Meta del nostro
cammino, il compagno di strada, l’Amico indefettibile, il Sostegno sorprendente, il Conforto
risanatore, la Speranza affidabile, Egli è la nostra ineffabile gioia! Sì, benché nessuno possa
negare che siamo dentro a un travaglio storico delicatissimo e intricato, noi sappiamo di
poterci affidare alla gioia. Una gioia che reinterpreta e ricolloca le angosce, gioia che spoglia
le apparenze e aiuta a riconoscere la vera consistenza dei virgulti positivi che il nostro tempo
genera. Gioia che non è solo un sentimento, una fragile emozione: è una Persona. Lui è tutta
la nostra gioia, nel senso che le ricapitola tutte, condensandole in Sé. No, non finiremmo mai
2
di parlare di Gesù. E se anche stasera o domani, nell’opinione pubblica echeggeranno solo
alcune delle nostre parole, e non precisamente queste – forse perché ritenute ovvie, di
maniera, persino scontate –, si sappia però che è questo, è Gesù Cristo che noi vogliamo
porgere, il Suo nome far risuonare. Non è vero che a noi interessa far politica, noi vogliamo
dire Gesù. Uomini e donne che ci ascoltate, qualunque sia la vostra interiore convinzione, noi
Pastori abbiamo da dirvi una parola antica che si affida alla nostra povera voce, ma che fa eco
a quella poderosa dei secoli: «l’Infinito fatto bambino, è entrato nella nostra umanità»
(Benedetto XVI, Messaggio Urbi et Orbi, 25 dicembre 2012), cioè ha fatto qualcosa di non
immaginabile, ha compiuto l’impossibile, e comunque qualcosa che va al di là dell’umana
comprensione. Eppure, questa Onnipotenza d’amore ha scelto di non imporsi alla nostra
libertà, ma solo di offrirsi. Egli non vuole «entrare nel mio cuore se non apro io la porta» (ib).
Sì, Porta fidei, è ciò che cercheremo di sperimentare in quest’anno di grazia, sperimentare
nella gioia (cfr Paolo VI, Gaudete in Domino, 1975)! C’è una diffusa mestizia, che si tenta di
attenuare con il chiasso e il rumore, ma Lui – inesorabile nel suo amore – sta alla porta e
bussa (cfr Ap 3,20), e ognuno deve decidere se aprirgli, deve soppesare la convenienza anche
umana del credere in Lui: «Potremmo rimanere spaventati, davanti a questa nostra
onnipotenza alla rovescia. Questo potere dell’uomo di chiudersi a Dio» (Messaggio cit.).
Abituati a trattare con un altro genere di prodigi – della scienza e della tecnica – o con un altro
tipo di poteri – politici o giudiziari – potremmo forse non cogliere subito l’assoluta novità di
questo impareggiabile Prodigio, di questa ineguagliabile Onnipotenza. L’«ignoranza pratica»
circa la fede (Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi francesi, 30 novembre 2012) troppo spesso
ci ottunde e devìa. Attenzione, però; chinandosi, Dio ci provoca, ci sfida amorevolmente a
cogliere il vuoto diffuso attorno a noi e dentro di noi, «ma è proprio a partire da questo
deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua
importanza vitale per noi uomini e donne» (Benedetto XVI, Omelia per l’Apertura dell’Anno
della Fede, 11 ottobre 2012). Un germoglio di eternità possiamo impiantare nell’umana
gestazione della vita, scenario impensabile, soprassalto di orgoglio: è un Miracolo quello che
abbiamo tenuto tra le mani a Natale, miracolo che ora dobbiamo vivere perché fiorisca il
deserto.
2. I fronti di crisi che più ci sgomentano, all’inizio di questo anno che ancora una volta il
Papa ha voluto inaugurare nel segno della Pace, sono le situazioni di persecuzione in cui si
trovano i cristiani, situazioni che in buona parte coincidono con i conflitti aperti in diverse
nazioni, ma in parte si sviluppano anche là dove apparentemente non dovrebbero esserci
motivi di tensione. Oltre ai luoghi ormai noti, emergono in Asia nazionalismi razziali che
suscitano periodicamente furori intolleranti sotto gli occhi distratti dell’Occidente, che
proclama sì i diritti umani ma poi sembra volerli applicare ed esigere con pesi e misure
diverse. Bisogna aggiungere le frontiere incresciose dell’Africa: Nigeria, Kenya, Repubblica
Democratica del Congo, Mali, in cui le ragioni degli attacchi si mescolano e i motivi pubblici
delle violenze sembrano voler identificare il cristianesimo con il mondo occidentale. Eppure il
Vangelo, ovunque si incultura, si fa costantemente accompagnare da esperienze di soccorso
alle popolazioni, spesso le uniche riscontrabili in loco. Poi ci sono le migrazioni etniche
basate sempre sul fattore religioso, per cui i cittadini che professano il cristianesimo –
3
religione che magari è storicamente la più radicata in quell’ambito geografico – debbono
andarsene lasciando tutto quello di cui era fatta la loro esistenza, e ciò per non abiurare la
fede. Dietro i sommovimenti avvenuti di recente nel Nord Africa, emergono inquietanti
tentativi di ulteriore discriminazione, e in troppi Paesi ai cristiani non è consentito alcun
segno di appartenenza religiosa, salvo mimetizzarsi, nascondersi, dislocarsi. Gli esperti
parlano complessivamente di oltre centomila cristiani delle varie confessioni uccisi nel 2012.
Una cifra spaventosa, che non può lasciar indifferente nessuno – singoli e istituzioni – tanto
meno in nome di interessi economici e politici. Quanti soffrono e muoiono per Cristo lo fanno
anche per noi, e noi li sentiamo nostri fratelli nonostante qualsiasi distanza. Nell’economia
misteriosa attraverso cui si intesse concretamente il regno di Dio sulla terra, è la comunione
con queste situazioni di martirio che dà verità e vigore al nostro lavoro pastorale, impegnato
oggi nella rievangelizzazione delle terre che hanno da tempo conosciuto il Vangelo. Se le
nostre parrocchie tenessero viva, anzi alimentassero, una sistematica memoria dei fratelli che
nel mondo sono perseguitati, anche la locale vitalità della fede ne sarebbe rimotivata. Chi
infatti, se non costoro, possono darci ragioni e convinzioni di slancio autentico?
Nel contempo, non abbandoniamo mai la preoccupazione per il problema della fame
nel mondo e l’impegno per gli aiuti da prestare alle varie regioni. La crisi alimentare, a
giudizio del Papa, è «ben più grave di quella finanziaria» (Messaggio per la 46a Giornata
della pace, n. 5). Ci sono le istituzioni preposte, ma c’è innanzitutto la solidarietà che mai
deve venir meno, a livello pratico e anche a livello culturale. Benedetto XVI ha di recente
voluto valorizzare la formula cooperativistica quale strumento efficace per combattere
strutturalmente la fame. Dare impulso al lavoro autoctono e specialmente agricolo è «un
modo per consentire agli agricoltori e alle popolazioni rurali di intervenire nei momenti
decisionali e insieme uno strumento efficace per realizzare quello sviluppo integrale di cui la
persona è fondamento e fine» (Messaggio per la Giornata dell’Alimentazione, 16 ottobre
2012). Una circostanza questa che ci induce ad esprimere, per assonanza, vero stupore per una
specie di improvvisa incomprensione che ha colpito il settore dell’economia sociale: proprio
da noi, che storicamente siamo stati tra i primi a sperimentarla e abbiamo così tante ragioni
concrete per stimarla. Nutrire più rispetto per l’economia sociale e civile, e per le sue
esperienze più tipiche in quello che è chiamato il Terzo settore, è condizione per continuare a
disporre del cespite di un’economia prossima a tutti e certamente propizia per la collettività.
3. Ma c’è un’altra emergenza che il Natale, con il suo realismo crudo e implacabile, ha
messo sotto gli occhi di chi vuol vedere: la condizione di indigenza che si va obiettivamente
allargando, e sta intaccando segmenti di società in cui prima era sostanzialmente marginale. I
dati vengono monitorati da varie agenzie, le quali oggi convergono nell’assegnare uno
spessore crescente al fenomeno. A nessuno deve far comodo esagerare in termini catastrofici,
ma occorre però che il Paese non esorcizzi la realtà. Gli schemi sociali classici sono saltati e
non si ripristineranno automaticamente. Scongiurato il baratro, è il momento decisivo e
irrimandabile del rilancio. La ripresa, quando ci sarà – e segnali di speranza, grazie a Dio,
cominciano ad affacciarsi – non sarà tale purtroppo da porre rimedio da sola alle emergenze
nel frattempo scoperte. È il sistema che va posto in discussione – il meccanismo consumi4
spesa-debito pubblico (cfr. Messaggio per la 46a Giornata Mondiale della Pace, n. 5) –
abbandonando la logica delle “illusioni” che ha fatalmente mostrato la propria assoluta
inadeguatezza morale e pratica. C’è da rivoluzionare il modello grazie al supporto di un
pensiero nuovo, fermamente convinti che il lavoro è definitorio dell’umano: esso, infatti, è la
nobile partecipazione dell’uomo all’opera del Creatore, consente il dignitoso sostentamento,
contribuisce alla costruzione della società, esprime le potenzialità di ciascuno nell’armonia
generale, genera futuro per tutti. Giustamente da più parti si evidenzia la nuova rilevanza che
ha acquisito la questione sociale in Italia e in Europa, per gli esiti di emarginazione che sta
creando. Noi, per la prossimità che ci è data con la vita reale della gente, non possiamo che
confermarlo con crescente allarme e soprattutto con cuore afflitto: «La giustizia chiede di
superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario» (Benedetto XVI,
Discorso all’Angelus, 16 dicembre 2012). E tra quanto è più necessario è proprio il lavoro,
bene «prioritario, anche nei periodi di recessione economica» (Benedetto XVI, Discorso a
Justitia et Pax, 3 dicembre 2012). La disoccupazione giovanile è, per ora, una sorta di
epidemia che non trova argini, mentre ci si chiede se le iniziative legislative che si sono finora
succedute abbiano determinato sollievo o aggravamento. Bisogna che le competenze migliori
cooperino in uno sforzo solidale e così ogni istituzione, affinché si possa vedere e toccare il
rilancio dell’occupazione e dell’economia; rilancio per il quale la gente ha accettato sacrifici
anche pesanti. Tanto patrimonio di responsabilità e rigore, di dignità e adattamento, non può
andare sprecato per colpa di alcuno – sarebbe un insulto – e invece si deve cominciare a
vederne i frutti. Non può essere il capitale umano quello che per primo viene messo in
discussione quando un’industria è in sofferenza; se è approdata ad alti livelli è grazie al lavoro
e all’apporto delle diverse maestranze, ed è ingiusto che proprio queste, per prime, vengano
messe alla porta. Vorremmo incoraggiare e sostenere quanti, nei diversi ruoli, vanno per il
mondo ad assicurare credibilità e aprire nuovi sportelli di mercato. Vediamo lavoratori che si
stringono di più gli uni agli altri, che cercano di appoggiarsi reciprocamente in modo
generoso e intelligente. Vediamo famiglie che solidarizzano, condividendo economie e
risorse, scambiando tempo e servizi. Vediamo giovani – non sono per noi i nuovi invisibili –
non disposti ad arrendersi. A loro siamo particolarmente vicini in ogni momento di
disillusione, ma anche in ogni tentativo che conducono: in ogni curriculum che inviano, ad
ogni porta a cui bussano, siamo con loro per appoggiare la loro tenacia. Nel frattempo tuttavia
bisogna che il sistema sappia migliorare le prestazioni e innovare nel senso della sostenibilità,
della ricerca, della sicurezza. Bisogna affinare le eccellenze, sveltire i processi, alleggerire la
macchina burocratica, valorizzare continuamente la creatività e l’inventiva. E bisogna
abbandonare la logica dell’essere contro “a prescindere”, atteggiamento che appare come
un’offesa all’intelligenza e alla serietà delle questioni. La logica del sospetto ideologico
genera divisioni artificiose, contraccolpi indesiderati, ritorsioni a loro volta superficiali e
dolorose. Servitori di Gesù Cristo, noi Vescovi vorremmo annunciare oggi, con particolare
persuasione, il vangelo del lavoro. Gesù ha investito almeno due decenni della sua vita nel
laboratorio di Giuseppe, ha conosciuto la fatica del lavoro, l’ha praticata senza sconti o fughe.
Anche in quel lungo tratto della sua esistenza, Egli ubbidiva al Padre e aveva un programma
da indicare a noi.
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Una parola, in questo contesto del welfare, vorremmo dirla a proposito della sanità: da
una parte per condannare gli imbrogli, i maneggi, le astuzie che si consumano in un settore ad
altissima vocazione altruistica, dall’altra per prendere le distanze da logiche irrazionalmente
pretenziose e talora esclusivamente campanilistiche. Dobbiamo allargare lo sguardo.
Chiediamo tuttavia che la politica dei tagli sia compensata e guidata dal criterio che al centro
vi sia sempre la persona del paziente: quale che sia la sua età e condizione, va prioritariamente
salvaguardata. Per questo ci sono specialità, competenze e ricerche che vanno strategicamente
preservate. Non ci devono essere privilegi, ma neppure visioni ristrette o punitive.
Un’altra parola, molto convinta, intendiamo riservarla alle popolazioni del Meridione,
non da oggi vessate dalla malavita, i cui tentacoli ormai si allargano all’intero Paese.
Dobbiamo vigilare, resistere, incoraggiare, denunciare, bonificare e recuperare: tutto in una
chiave di educazione e promozione umana che è inseparabile dall’evangelizzazione.
4. Queste problematiche sociali, in certa misura antiche ma anche inedite, hanno oggi
una spigolosità che non lascia certo indifferente la nostra Chiesa, la quale per la sua parte
intende rispondervi rinnovando profondamente se stessa e la propria presenza sul territorio,
anzitutto grazie ad un profilo più missionario delle parrocchie: «Il messaggio cristiano viene
seminato e si radica efficacemente là dove è vissuto in modo autentico ed eloquente da una
comunità» (Benedetto XVI, Messaggio all’Assemblea del CCEE, 8 ottobre 2012). La
riduzione del clero non può coincidere con l’affievolirsi di tali presidi pastorali, anzi è
semmai il tenerli ancor più aperti, attenti e prossimi alle persone che può configurare una
fondamentale risposta alla sfida della nuova evangelizzazione. È noto quello che viene messo
in campo dalle nostre Diocesi per rispondere all’appello dei bisognosi. In tal senso, la
sensibilità e la reperibilità, riscattate da pragmatismi farraginosi e connotate da amicizia e
condivisione, diventano caratteristiche irrinunciabili della carità evangelica. Ma oltre al
territorio, quest’opera va meglio coniugata con la pastorale degli ambienti, in vista di un
accreditamento reciproco e un’integrazione più consapevole ed esplicita con la presenza dei
movimenti e delle aggregazioni, come con proposte che per natura loro sono sovraparrocchiali.
Si pensi alle GMG o ai pellegrinaggi. Una pastorale integrata, dunque, che
ponga il proprio baricentro nell’Eucarestia, e da lì si moduli senza isolazionismi, mirando a
ciascun soggetto e ciascun ambito, finanche ai crocicchi delle strade. Ma mentre attiviamo
una migliore creatività (cfr. Benedetto XVI, Omelia per la conclusione del Sinodo, 28 ottobre
2012), dobbiamo sempre ricordare che non è il nostro fare più o meno esasperato che compie
il miracolo della fede, bensì il consentire attraverso di noi il fare del Signore, il non
ostacolarlo e anzi favorire la sua attrattività. Lui fa nascere figli di Abramo dalle pietre (cfr Lc
3,8), Lui dobbiamo collocare sempre più al cuore della nostra attività e delle nostre relazioni,
Lui riconoscere come il senso vero di ogni iniziativa catechetica e di ogni sforzo per
rinnovarla, Lui soprattutto la Presenza palpitante di una liturgia meno pragmatica e
sciattamente didascalica, perché meglio capace di far incontrare il Signore, non noi. È nella
cura ai sacramenti, a partire da quelli dell’iniziazione cristiana, che parrocchie e diocesi
mettono in gioco il permanere della loro cattolicità. Non abbiamo un prodotto da imporre –
come ci avvertiva il Messaggio finale del Sinodo – ma una Persona, una presenza,
un’amicizia che cambia la vita. In questo senso è la testimonianza e sono i testimoni coloro
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che concretamente fanno la nuova evangelizzazione. Qui si insinua la dinamica di una nuova
devotio di cui pure s’è parlato, che deve spingerci a ritrovare, nella post-modernità, quei modi
e quelle occasioni atte a parlare al cuore. Cercando di arrestare ogni processo di involontaria
auto-secolarizzazione, le nostre comunità devono rispondere alla nostalgia di Dio, senza porre
in alternativa ciò che è essenziale con il clima necessario alla pietà, al senso di stupore,
all’interiorizzazione. Se si è impoverito il lessico della fede ed è stato eroso il linguaggio che
teneva viva la relazione con Dio, bisogna far sì che il tempo della nuova evangelizzazione
coincida con la riscoperta dell’identità cristiana e della sequela personale del Signore. C’è una
tiepidezza che discredita il cristianesimo, osservava il Papa: «La fede deve divenire in noi
fiamma dell’amore […] la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche
l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la nostra carità, cresce realmente
l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta»
(Meditazione alla 1a Congregazione generale del Sinodo, 8 ottobre 2012).
5. Sotto il peso della congiuntura, il popolo italiano si è mostrato ancora una volta solido:
nella capacità di dedizione e di sacrificio ha rivelato forza di tenuta e di speranza. Ma nessuno
s’illuda o cerchi spiegazioni ideologiche e parziali: se ciò è accaduto, prima che ai risparmi,
alle autoriduzioni, alla revisione di stili di vita, ciò è dovuto al naturale e insostituibile
moltiplicatore di ogni più piccola risorsa: la famiglia. È il suo patrimonio di amore, di
sostegno e di legami virtuosi, che permette ad ognuno di mantenere quell’invisibile e
incomparabile capitale di autostima e fiducia che nessuna ricchezza materiale può comprare, e
senza del quale le difficoltà diventano massi schiaccianti. Neppure possiamo dimenticare che
a livello pubblico hanno rappresentazione la volatilità degli indicatori economici, la gracilità
della sicurezza economico-sociale, l’improvvisa friabilità dei nostri argini di garanzia,
l’imperiosità delle disposizioni europee. È comprensibile dunque un certo senso di
smarrimento. Azioni importanti nell’ultimo periodo sono state fatte per recuperare affidabilità
e autorevolezza, a prezzo anche di pesanti sacrifici non sempre proporzionatamente distribuiti.
Il Paese ha tenuto duro, avvertendo intuitivamente che stava facendo quello che bisognava
fare. Resta ora da saldare in modo anche visibile la disponibilità della gente con il costume
pubblico e politico. Non c’è un rigore istituzionale degno di questo nome se non ci sono
formazioni politiche che lo assumono su di sé, lo interpretano con scrupolo, ciascuna con le
proprie sensibilità, ma alla fine su di esso sostanzialmente convergono. Si respira uno
sbilanciamento tra il desiderio popolare di uscire dal tunnel e ciò che viene messo in campo
perché l’impresa riesca grazie all’iniziativa dei pubblici poteri. Di qui la percezione di un
Paese perennemente incompiuto, che costa molto a se stesso ma non riesce ad ottenere i
risultati che merita. Sistema non riformabile?, ci si chiede. Dipende dalla capacità della classe
politica complessivamente intesa di sfidare i propri vizi storici, mettendo con ciò in riga anche
i comportamenti popolari che resistono al cambiamento, come il costume dell’evasione fiscale
o quello delle “scorciatoie”. Ma finché non si dimostrerà vincente la logica del merito,
dell’obiettività, del non-familismo, sarà difficile confidare. Finché la lotta all’evasione non
produrrà risultati in cifre consistenti, e queste entrate non serviranno per abbattere la
tassazione generale, è difficile dar credito alle promesse. Il precipitare della legislatura verso
una prematura conclusione sembra aver risvegliato, nel panorama politico, una agilità e
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prontezza sorprendenti. C’è un professionismo esibito nelle fasi elettorali che palesemente
contrasta con la flemma e la sciatteria dimostrate talvolta in altri frangenti, come se si volesse
stare a guardare lo svolgersi degli eventi, pronti ad appropriarsi dei meriti ma non a
condividere i pesi, pronti a cogliere l’occasione opportuna. Opportuna per chi? Forse per il
Paese? «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per
realizzare la società più giusta possibile»: queste parole normative di Benedetto XVI, espresse
nella sua prima enciclica Deus caritas est, al n. 28, sono il binario a cui strettamente ci
atteniamo. Ma se la Chiesa non è chiamata a caricare immediatamente su di sé il compito
politico, «non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia» (ib). Per
questo, a quanti sono in campo osa oggi richiedere parole chiare circa le proprie personali
intenzioni, e alle formazioni politiche l’impegno su programmi espliciti, non infarciti di
ambiguità lessicali e tattiche. Il Paese sano è stanco di populismi e reticenze di qualunque
provenienza e comunque vestiti. Le riforme domani saranno realizzate solo se oggi non si
fanno promesse incaute e contraddittorie. Gli italiani, a quel che comprendiamo, non
chiedono l’impossibile, esigono piuttosto che nessuno dei sacrifici compiuti vada deviato o
perduto. E che a partire da questi sacrifici si allestisca l’intelaiatura di una ripresa concreta,
diffusa, equa. Ma un simile obiettivo, insieme morale e politico, è concretamente sperabile se
non manca ora la capacità di autocritica, l’abbandono di ogni automatico addebito ad altri, la
determinazione di non raggirare domani gli impegni assunti con l’elettorato oggi. La gente
vuole che la politica cessi di essere una via indecorosa per l’arricchimento personale. Per
questo s’impone un potere disciplinare affidabile e una regolazione rigorosa affinché il
malcostume della corruzione sia sventato, tenendo conto però che a poco servono le
necessarie leggi se le coscienze continuano a respirare una cultura che esalta il successo e la
ricchezza facile, anziché l’onore del dovere compiuto.
6. Il prossimo vaglio elettorale ci renderà più o meno poveri? Ecco un modo, a nostro
avviso non banale, per affrontare le scadenze all’orizzonte. Va da sé che qui stiamo parlando
di indigenza o di benessere secondo il prevalente profilo antropologico. Se è sacrosanto il
ciclico appello al popolo, affinché in coscienza e responsabilità questi decida sulla strada da
percorrere e sulla classe dirigente a cui per un tratto affidarsi, a ciò corrisponde il dirittodovere
di ogni cittadino alla convinta partecipazione alla vita civile e politica del Paese. Per
questo merita superare allergie e insoddisfazioni, anche profonde: la diserzione dalle urne è
un segnale di cortissimo respiro. Non bisogna cedere alla delusione, tanto meno alla
ritorsione: non sarebbe saggio e, soprattutto, sarebbe dannoso per la democrazia. Partecipare è
dovere irrevocabile, specie se si pretende di inserire questa prossima scelta in un quadro più
maturo che coinvolga nei debiti modi l’intera vita civile. Tornano qui provvidenziali le
elaborazioni sulla società che a più riprese sono state condotte dalle nostre Settimane Sociali:
guardare con sufficienza, o peggio ironizzare sull’afasia dei cattolici e dei Pastori, è quanto
meno ingiusto come è stato anche recentemente riconosciuto. La dottrina sociale cristiana ha
una sua precipua originalità rispetto al collettivismo sedicente progressista e al liberismo
falsamente egualitario.
È certamente riconosciuto dalla coscienza in generale l’esigenza di esprimere il
proprio voto liberamente, cioè svincolato da suggestioni e da pressioni spesso veicolate da
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minoranze che hanno l’abilità di non apparire tali. La biopolitica è oramai una frontiera
immancabile di qualsiasi programma. Francia, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti…, per limitarci
a questi soli Paesi, ci dicono che non si può far finta di accantonare i problemi quando sono
semplicemente nodali nelle società post-moderne. Parlare di vita, salute, malattia, stati
cosiddetti vegetativi, dolore, previsione infausta, medicina palliativa, invasività delle
diagnosi, disabilità, rapporto medico-ammalato, ma anche di medicina e bilancio dello Stato,
obiezione di coscienza, politica dei trapianti… significa affrontare temi cruciali che tali
saranno sempre di più. Insieme a quello scandaloso – per le evidenze che vorrebbe ignorare –
dell’aborto, della maternità surrogata, dell’eutanasia attiva o passiva. Andando sul concreto,
quanti aborti e quanti tentazioni eutanasiche si verificano a motivo del primato economicista?
Non ha senso nascondere gli argomenti, riconoscendo invece cittadinanza elettorale solo
all’economia, in quanto fenomeno che obiettivamente brucia. Si parla ovunque di biopolitica
e di biodiritto; perché non concepire anche l’economia come bioeconomia? Linee di
compromesso, o peggio di baratto tra economia ed etica della vita, a scapito della seconda,
sarebbero gravi. Senza il primato antropologico non solo la finanza e l’economia sarebbero
oppressive perché ridurrebbero la persona in termini di costi e ricavi, ma anche lo stato
sociale nascerebbe su basi anguste e riduttive.
Né ci si può illudere di neutralizzare in partenza il dibattito, acquisendo all’interno
delle varie formazioni orientamenti così diversi da annullare potenzialmente le posizioni, o
prevedere al massimo il ricorso pur apprezzabile all’obiezione di coscienza. Viene qui
spontanea una analogia con la famiglia: come questa ha un volto, un’identità fatta dal suo
modo di ragionare, di amare e di agire, così è della società e dello Stato se vogliono essere
una comunità, e non solo un agglomerato di interessi o istanze particolari. In questa seconda
ipotesi, lo Stato potrà solo cercare di “tenere a bada” gli appetiti contrastanti dei singoli
soggetti o parti, allergici ad un progetto di bene comune. Il suo massimo merito sarebbe in
questo caso di bilanciare non di costruire. Ma la famiglia – riferimento principale
dell’analogia – non è questo! La famiglia è una scelta d’amore che – in un progetto comune –
diventa patto tra un uomo e una donna nel matrimonio.
Similmente, anche la società deve avere alla base un progetto di bene comune,
altrimenti cadrà fatalmente in balia di pressioni o interessi contrastanti, dove sarà ascoltato ed
esaudito chi fa la voce più forte e insistente. Ora, alla radice del bene comune troviamo le
realtà primarie della vita, della famiglia e della libertà, che si intrecciano e si richiamano
universalmente perché sono valori fondativi e quindi irrinunciabili dell’umano. Si potrebbe
dire che l’inviolabilità della vita è il principio, la famiglia ne è il grembo sorgivo, la libertà la
condizione prima di sviluppo. Tutto il resto viene di conseguenza. Quando la Chiesa si
interessa dell’inizio e della fine della vita, lo fa anche per salvaguardare il “durante”, perché
ciò che le sta a cuore è tutto l’uomo, la cui dignità non è a corrente alternata. Sviluppando la
precedente metafora, nella famiglia nasce la vita, viene accudita con amore e dedizione,
fedeltà e gioia, tanto più quanto essa si presenta fragile e indifesa. La piccola vita – come la
vita malata o anziana – è sentita parte viva e cara del corpo familiare poiché ognuno è
importante, e sta a cuore agli altri per quello che è, non per ciò che fa o produce. Così deve
essere nel corpo sociale e nello Stato. Lasciar andare alla deriva la vita fragile, che non ha
neppure la voce o il volto da opporre per affermare se stessa, rivela un’autocomprensione
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efficientista e arrogante dello Stato, una sua inquietante carta d’identità, pur se il tutto è
spesso motivato con ragioni alte. È qui in questione non la sofferenza e il dramma di persone
concrete, ma il porsi – e prima ancora il concepirsi – di uno Stato verso i suoi membri. La
fotografia realista di una società è determinata anzitutto dal suo rapportarsi virtuoso non verso
i soggetti efficienti, produttivi e gagliardi, ma verso i più bisognosi e indifesi. Sta qui la sua
prima e incancellabile verità. E non in termini di assistenza, ma di giustizia poiché questo è lo
scopo della buona politica. La vita fragile interpella non solo la famiglia, che già se ne fa
carico, ma la società intera. Chiede alla comunità e ai suoi apparati istituzionali di non essere
abbandonata ma di essere presa “a cuore”. È evidente che ciò rappresenta un impegno per la
collettività in termini di risorse economiche e assistenziali; come è evidente che tali vite
spesso non avranno da ricambiare con compensi o consenso. Ma la vera risposta sta nel fatto
che la società avrà fatto il proprio dovere, paga di essere umana. Ecco perché quando si
giunge di fronte alla grande porta dei fondamentali dell’umano, non è possibile il silenzio da
parte di alcuno, persone e istituzioni: si è arrivati al “dunque”. Reticenze o scorciatoie non
sono possibili: bisogna dire il volto che si vuole dare allo Stato, se è una famiglia di persone o
un groviglio di interessi; se un agglomerato di individui o una rete di relazioni su cui ciascuno
sa di poter contare, specialmente nelle fasi di maggiore fragilità.
7. Certo la difesa dei diritti ha fatto grandi progressi, e dunque in qualche modo può
ritenersi un dato basilare unificante le diverse formazioni e diversi gruppi. Ma come non
riconoscere una singolare tendenza arbitrariamente selettiva di quanto viene proposto come
irrinunciabile e innegoziabile? Ecco perché la già evocata «questione sociale è diventata
radicalmente questione antropologica» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 75). Dobbiamo
stare attenti che una certa cultura nebulosa non ci annebbi la vista, inducendoci a non
riconoscere più, tra i principi che mandano avanti la società, i fondamenti che non sono
confessionali, come si insiste a dire, ma semplicemente di ordine razionale. Anzi, è necessario
che in un momento elettorale si certifichi dove essi trovano dimora. Si tratta della vita, come
ho detto, dal suo concepimento alla morte naturale, dunque la rinuncia all’eutanasia
comunque si presenti, la libertà di coscienza e di educazione, la famiglia basata sul vincolo
del matrimonio tra l’uomo e la donna, la giustizia uguale per tutti, la pace. Sono le
determinazioni storico-pratiche o principi basilari, dunque non negoziabili, per i quali c’è un
fondamento, oltre che nella ragione, nella nostra stessa Costituzione, e ai quali tutti gli uomini
di buona volontà debbono attenersi. Chiunque si rifà al bene comune immediato non può non
considerarli per ciò che sono, ossia valori non derogabili sul piano della civiltà politica, pena
un arretramento antropologico e sociale. Perché la Chiesa insiste tanto? Perché ha a cuore
l’uomo! Perché è chiamata a rappresentare «la memoria dell’essere uomini di fronte a una
civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio di misura. […] La
Chiesa certamente non ha soluzioni pronte per le singole questioni. Insieme alle altre forze
sociali, essa lotterà per le risposte che maggiormente corrispondano alla giusta misura
dell’essere umano. Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non
negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto
il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica» (Benedetto
XVI, Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2012). Su questi principi i cattolici sanno che
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non esiste compromesso o mediazione comunque si voglia chiamare, poiché ne va dell’umano
nella sua radice. Per questo la Chiesa è “avanguardia”. Si sente ripetere che questi sono valori
“divisivi” mentre quelli sociali sarebbero “unitivi”: in realtà, i valori sociali dei quali abbiamo
parlato sopra e che la Chiesa conosce e pratica fin dal suo nascere (cfr At 2) stanno in piedi se
a monte c’è il rispetto della dignità inviolabile della persona. Fa specie che taluno consideri
tali principi come retaggio clericale quando sono le garanzie ultime per gli indifesi e i senza
diritto di parola. In questa cornice, ci pare senza dubbio importante la campagna «Uno di noi»
che partirà prossimamente e vuole portare nelle sedi comunitarie l’istanza della vita, senza più
selezioni. Così come stupisce che si programmi fin d’ora di discostarsi da essi, quale
passaggio necessario per “entrare” a pieno titolo nell’Europa evoluta. Ma l’evoluzione e il
progresso consistono nel negare i valori umani? E perché dovremmo noi inseguire e copiare
qualcuno che, abdicando ad essi, si è allontanato dal circuito valoriale ed è entrato in un
assolutismo del relativo, del precario, del soggettivo, rischiando di congedarsi dalla storia?
Gli esiti sociali riscontrabili di quella impostazione ci legittimano a tanto? Perché si dovrebbe
«contenere» l’Europa – per altro necessaria – quando avanza pretese esigenti sul fronte – ad
esempio – delle regole sul lavoro, ed assecondarla invece quando vorrebbe decidere
dell’equilibrio esistenziale della nostra umana esperienza? Fa pensare la Caritas in veritate
quando avverte: «Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di
degrado, se l’indifferenza caratterizza persino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e
ciò che non lo è?» (ib). Come Vescovi, sentiamo di dover far nostro l’invito proveniente oggi
anche da soggetti insospettabile, di non lasciarci dividere dal secolarismo piegato in versione
nichilista. La crisi in atto – che in ultima istanza può essere vinta solo con la cultura della vita
(cfr Messaggio CEI per la Giornata della vita 2013), ci ricorda che senza un’apertura al
trascendente l’uomo diventa incapace alla lunga di agire per la giustizia (cfr. Benedetto XVI,
Discorso a Justitia et Pax cit.). Dunque, il bene comune immanente che tenacemente va
perseguito, deve mantenere i cieli aperti perché questo procura perentorietà e dedizione
all’iniziativa dei singoli.
8. La madre di tutte le crisi è l’individualismo. E questo è figlio della cultura nichilista
per cui tutto è moralmente equivalente, nulla vi sarebbe di oggettivo e di universale valido e
obbligante. È questo il tarlo più o meno mascherato che sta modificando dal di dentro gli
assetti dell’orientamento comune e delle prassi sociali. Nel suo congenito utilitarismo,
l’ideologia individualistica concepisce «la persona come un essere fluido, senza consistenza
permanente», per la quale non c’è una natura precostituita, è il soggetto a crearsela (cfr.
Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana cit.). In realtà, è la cultura del limite quella che
viene rimossa, in quanto ritenuta negazione della libertà individuale e dello slancio vitale.
Dunque, non conveniente e ingiusta. Si tratta – a ben vedere – di una sorta di moderno delirio
di onnipotenza che nella storia umana è già stato più volte sperimentato. Una distorsione
radicale del desiderio di libertà e di autorealizzazione, una sorta di fuga dal realismo fattuale e
dalla ragione stessa. Di qui l’incapacità di legami veri, in cui l’altro sia non solo la proiezione
o lo specchio di sé, ma il terminale di una relazione a misura intera dell’essere. Si annida qui
un’idea bugiarda e infondata di un’autonomia personale che accetta di entrare in
comunicazione con l’altro solo potendola – la comunicazione – interrompere in ogni
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momento (cfr ib). Ovvio che tutto questo abbia una ricaduta pesante sull’esperienza familiare
e le sue possibilità di tenuta, ma prima ancora sulla prospettiva di potervi tener fede. Ed è uno
dei motivi del calo dei matrimoni, di cui pure si è parlato negli ultimi mesi, ma anche della
grave situazione demografica. Peccato che, nei giorni successivi, l’argomento sia rapidamente
scomparso dal dibattito pubblico, quasi fosse un tema tra mille altri, e non ci si sia interrogati
adeguatamente sulle proiezioni in termini di futuro di questa sottovalutazione. Ed ecco anche
uno dei motivi per cui si continua a riproporre il tema dei matrimoni omosessuali, quasi si
trattasse di un approdo inevitabile. La famiglia precede lo Stato, in quanto è un istituto dotato
di una sua naturalità per nulla convenzionale, perché iscritta nel codice addirittura fisico della
persona: le differenze sessuali, infatti, si richiamano vicendevolmente in vista di un mutuo
completamento nel segno dell’amore che è accoglienza e dono, grembo di nuove vite da
generare e educare. Il diritto del bambino – non al bambino – viene prima di ogni desiderio
individuale.
La famiglia si è mostrata ancora una volta come l’elemento fondamentale per la
coesione sociale delle diverse generazioni, la cellula primordiale e il patrimonio
incomparabile su cui poggia la società. Per queste ragioni nulla può esserle equiparata, né
tanto né poco. Né può essere indebolita da ideologie antifamiliari o simil-familiari, che
vorrebbero ridefinire la famiglia e il matrimonio mutando l’alfabeto naturale e istituendo
modelli alternativi che la umilierebbero alimentando il disorientamento educativo. Si sente
dire che “dove c’è amore c’è famiglia”. Mi sembra un’affermazione suggestiva ma
qualunquista, perché la coppia – per fare famiglia – oltre l’amore richiede anche altri elementi
costitutivi: capacità, doveri e diritti, su cui la società conta e per i quali s'impegna. Tutto ciò
appartiene a quel senso comune in grado di sfidare qualunque sollecitazione: semmai ha solo
bisogno di essere confortato e consolidato. Dispiace, a dire il vero, che tutto questo non si
voglia comprendere, come se la Chiesa nutrisse degli ostinati pregiudizi. Ma se esistono
lucidità intellettuale e onestà morale, perché non è dichiarato apertamente ciò che ad arte
viene taciuto, seppur faccia qua e là capolino? E cioè, se la natura dell’uomo non esiste, allora
si può fare tutto, non solo ipotizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La recente
sentenza della Cassazione sull’adottabilità da parte delle coppie omosessuali, oltre ad essere
stata immotivatamente ampliata nella propria valenza, non può certo mutare la domanda
innata di ogni bambino: quella di crescere con un papà e una mamma nella ricca armonia
delle differenze. C’è in giro una notevole confusione, perché si pensa che la realtà sia
superata, che nessuna verità esista, ma se ciò è vero – avverte Spaemann – allora tutto diventa
questione di potere. Ed è ciò che sta sotto i nostri occhi, ma è anche ciò che la Chiesa,
«esperta in umanità» (Paolo VI, Discorso all’Assemblea dell’Onu, 4 ottobre 1965), non potrà
mai accettare: «La verità per noi è più importante della derisione del mondo» (Benedetto XVI,
Omelia all’Epifania cit.). E questo non per opporsi al mondo moderno con le sue luci e
conquiste, i suoi aneliti giusti e nobili, ma per lo stesso amore che ha spinto il Samaritano del
Vangelo a farsi umilmente prossimo. Così come il venerabile Paolo VI disse al termine del
Concilio Vaticano II: «L’antica storia del Samaritano è stato il paradigma della spiritualità del
Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso […]. Questo Concilio tutto si risolve nel
suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito
all’umanità d’oggi a ritrovare […] quel Dio “dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale
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rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel
Quale abitare è vivere” (Sant’Agostino, Soliloqui, I,1 3)» (7 dicembre1965).
Cari Confratelli, mi fermo qui, anche se le questioni toccate meriterebbero
probabilmente dell’altro: ma questo verrà dal nostro confronto. Continuiamo a stare nella
speranza, cioè con il Signore e la sua beatissima Madre. Grazie.
 
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Zlatandiadelfia
view post Posted on 2/7/2013, 08:13




Buon compleanno, Don Tonio... ;)
 
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parrocchiaimmacolata
view post Posted on 2/7/2013, 13:54




Grazie Enzo. Passate dal castello stasera.

 
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DonaldSef
view post Posted on 18/6/2017, 15:46




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40001 replies since 2/2/2005, 20:47   497874 views
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